Rubrica dei Pensieri
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I commenti e le domande sono bene accetti.
Credo che l’oratorio non sia solo un luogo fisico, ma anche la possibilità di crescere insieme, di condividereil nostro pensiero, il nostro carattere, le nostre emozioni, così da poter fare continuamente i conti con chi siamo e conoscere noi stessi sempre di più: la sfida più importante della vita.
Adolescenza è sinonimo di confusione, di domande, di ricerca assidua di un’identità. Il modo con cui questa ricerca viene vissuta è decisivo. Ci sono compagnie che propongono di non dare ascolto a queste domande e che ti inducono a fare scelte di cui ti potresti pentire più avanti. Per questo credo che sia fondamentale, in particolare forse per noi ragazzi, una compagnia che non anestetizzi queste domande, ma che ricerchi, insieme, un significato alla nostra esperienza, un senso alle cose. L’oratorio deve essere, a mio avviso, questa compagnia. Deve essere un luogo che dia la possibilità a noi giovani di affrontare la realtà con una prospettiva costruttiva, al contrario di ciò che molte compagnie, purtroppo, offrono. Un luogo di divertimento, ma anche di riflessione, di giudizio. Un luogo dove coltivare e fare continua esperienza di certi valori quali l’amicizia, la fiducia, la condivisione, il rispetto, la lealtà, la curiosità, l’ascolto, il desiderio di Verità, di Giustizia, di Bellezza in ogni gesto quotidiano.
L’osservare il mio oratorio costruire una società sportiva e prendere così tante iniziative per tutti come quest’anno – vedi tornei di calcetto a 5, pallavolo, pallamano, pallacanestro, calcio balilla, ping pong, etc –, ha fatto nascere dentro di me la sensazione di essere invitato a fare parte di questa compagnia, a vivere la possibilità che desideravo. Mi sono sentito talmente coinvolto, che a Luglio mi sono messo in gioco a vivere l’esperienza dell’animatore del CRE con una pienezza che mi ha lasciato profondamente soddisfatto.
Convinto che questo fosse lo spirito giusto mi sono divertito nel dare una mano ad organizzare le iniziative che hanno riempito il mese di Agosto, sperando che più persone possibili si sentissero invitate in questa compagnia così come lo sono stato io. Concluso Agosto, per non spegnere questa scintilla ho deciso di iscrivermi nella squadra di calcio a 11 dell’associazione sportiva dell’oratorio: SANSONE; così da tenere continuamente vivo il rapporto con questa compagnia anche durante il periodo scolastico.
La mia speranza è che più adolescenti possibili, come me, si sentano partecipi di questo gruppo aperto e non anestetizzino, bensì coltivino, il desiderio di mettersi in gioco nel costruire qualcosa insieme, a partire da un vero rapporto di Amicizia.
CONVEGNO NAZIONALE DEL CENTRO SPORTIVO ITALIANO ASSISI – 7 DICEMBRE 2013 Lo sport e l’uomo: esperienza di fede, storie di vita
Lo sport e l’uomo:
esperienza di fede, storie di vita
don Michele Falabretti
“Qui non siamo tra gente rozza e selvaggia come nell’ambiente di
quelli là” concluse sorridendo don Camillo. “E possiamo ragionare
da gentiluomini assennati. Con l’aiuto di Dio gli appiccicheremo sei
goal a zero. Io non faccio minacce: io dico semplicemente che
l’onore della parrocchia è nelle vostre mani. Anzi: nei vostri
piedi. Ognuno faccia il suo dovere di buon cittadino. Se poi,
naturalmente, c’è qualche barabba che non ce la mette tutta fino
all’ultima goccia, io mica faccio le tragedie di Peppone che spacca
le facce! Io gli polverizzo il sedere a pedate!”.
Giovanni Guareschi, La Disfatta in Don Camillo, 1948.
Introduzione
Giocherò a carte scoperte. E partiamo da quello che è successo a
Torino domenica sera. I fatti li conosciamo tutti: una curva viene
squalificata e dentro ci mettiamo i bambini. Bello! Solo che a un
certo punto dodicimila (non due…) bambini cominciano il giochetto di
insultare il portiere della squadra avversaria ogni volta che rinvia
il pallone. Risultato: 5.000 euro di multa alla società.
Che dire? Be’, ce ne sarebbero molte di cose da dire e forse questo
episodio ci aiuterà oggi a riflettere insieme. Non vogliamo fare i
moralisti ed esagerare un episodio che ha del grottesco. Ma non
possiamo nemmeno sorvolare. Qui non si tratta di valutare l’episodio
o di metterli al muro per una parolaccia. È il fatto che questi
piccoli si siano subito lasciati prendere dai vizi dei grandi, che ci
fa pensare. Qualche volta viene da pensare: non ce la faremo mai…
Una cosa la voglio dire subito: a me sembra che l’errore grave sia
stato quello di pensare che fosse sufficiente mettere un po’ di
ragazzi in curva – lasciandoli lì, da soli; una soluzione
“corta” e molto ingenua, capace di produrre un problema ancora
più grosso da gestire. Chi l’ha detto che i bambini sono bravi e
buoni? Chi l’ha detto che i preadolescenti non imparano in fretta
dai difetti degli adulti? La cosa grave non sono gli insulti dei
ragazzi: la cosa grave è che gli adulti si sottraggano al loro
compito di accompagnare i più piccoli, di non lasciarli soli nelle
loro esperienze di vita. Perché nessuno li ha “guidati” a fare i
cori? Ci siamo dimenticati che nessuna curva canta da sola? Che ha i
suoi direttori d’orchestra?
E qui mi piace pensare a un concetto diverso di educazione. Chi sta
diventando grande ha bisogno di percorrere un cammino, ma anche di
perdersi un po’. Il suo perdersi non è sempre un errore: più
spesso è un errare che dice il bisogno di ognuno di cercare e trovare
il senso dell’essere nel mondo. Fa parte dell’ormai famosa
“emergenza educativa” la necessità di educatori che si facciano
compagni di strada, che sappiano perdere pazientemente tempo ed
energie, che sappiano esprimere una passione profonda per ogni persona
che incontrano nel loro mandato. Educatori che sappiano decentrarsi
dalle proprie figure e certezze, perché le tensioni di chi è loro
affidato sono le priorità del loro compito. E perché soltanto quando
si cammina insieme si scoprono i tratti della Verità.
A me pare che siano maturi i tempi per cominciare a volare un po’.
La questione educativa ci aiuta a uscire dagli schemi di chi cerca
nella fede un marchietto da appiccicare ovunque; così, tanto per
mettersi al riparo. Dal “si è sempre fatto così!” al “teniamo
i ragazzi lontano dalla strada”, anche i nostri ambienti (compresi
quelli che si dedicano all’attività sportiva) non sono esenti dalla
tentazione degli slogan. E quindi proviamo ad andare con ordine,
almeno su alcune questioni iniziali.
Il volto e lo sguardo
Quando ci occupiamo di educazione, andiamo spesso – subito – alla
ricerca di un metodo. Proprio perché viviamo “in un mondo che
cambia” (e dovremmo anche dire che è già di molto cambiato) ci
sentiamo smarriti. Ciò che funzionava fino a ieri, sembra essere oggi
fortemente inadeguato. E rischiamo di vivere di espedienti, di
“trovate” pronte per essere confezionate e distribuite ovunque.
Invece l’educazione è come un’impresa titanica, mai finita, mai
ferma nei suoi schemi, nei punti di riferimento che abbiamo bisogno di
trovare. Lo sguardo, dunque, non va sulle cose da fare o su come
farle. Il primo sguardo va sulle persone: quelle che incontriamo oggi
nei nostri campetti di periferia. Noi vorremmo allenare ragazzi che
fossero già maturi e pronti per la vita, oltre che tecnicamente ben
dotati. E invece ci vengono affidati ragazzi da far crescere.
Far emergere il volto dei nostri giovani è una questione prioritaria:
mai come oggi il loro volto è in continuo e radicale mutamento:
quando pensiamo di averli conosciuti, cominciano già a cambiare. Ma
il volto lo si riconosce attraverso lo sguardo. E il modo di guardare
non è mai neutro. Intanto perché abbiamo a che fare con delle
persone; poi anche perché le nostre precomprensioni generano
atteggiamenti che saranno determinanti nelle nostre azioni. Un conto
è pensare di poterci rivolgere a persone che sono in grado di
esprimere la propria libertà attraverso la fede cristiana. Diverso è
credere di avere di fronte solo una serie di “errori” da
emendare.
Per questo – iniziando – mi pare giusto sottolineare il carattere
che deve avere lo sguardo sul mondo giovanile. Dobbiamo fare lo sforzo
di non pensare ai giovani come al concentrato dei mali del mondo: essi
portano con sé una novità di cui a volte abbiamo timore perché non
la conosciamo. Portano con sé istanze che non sono tutte da accettare
e da assecondare.
Ma soltanto se riusciamo ad avere uno sguardo buono su di loro,
soltanto se riusciamo a credere profondamente che saranno in grado di
affrontare il futuro portando nel cuore un po’ delle nostre ragioni
– ma esprimendone anche di nuove – avrà un senso cercare di
comunicare loro la nostra fede e la nostra speranza che è Gesù
Cristo.
Trasmettere la fede
Vi chiederete cosa c’entra il discorso che ho appena fatto con il
mondo dello sport. L’esperienza del Csi è quella di
un’associazione ecclesiale: un gruppo (oggi molto consistente) di
cristiani che si mettono insieme per animare la vita della chiesa. Per
far sì, cioè, che essa possa essere ancora quella realtà che
permette agli uomini di incontrare Gesù Cristo. Che questo sia fatto
attraverso lo sport, non sminuisce (e nemmeno accresce) l’attività
del Csi all’interno della chiesa stessa: il punto è che lo sport va
riconosciuto come un’attività importante nella vita dell’uomo di
oggi e dei più giovani in particolare.
E qui arriviamo alla questione educativa. C’è un po’ odore di
muffa quando si liquida la questione dietro lo slogan (perché ormai
tale è diventato) dell’”emergenza educativa”: gridare in
continuazione “al lupo, al lupo!” non aiuta. E nemmeno serve il
piagnisteo di chi continua a tenere nel cuore la nostalgia per “i
bei tempi andati”. Se viviamo in un mondo che non condivide più i
valori cristiani, facciamocene una ragione; perché questo non
significa che i valori cristiani non possano trovare spazio nel cuore
dell’uomo di oggi. Forse il problema è nostro e non “degli
altri”.
Attenzione, poi, anche a un altro rischio: quello di sentirsi relegati
a sport di secondo piano, quello di vivere costantemente nel desiderio
di toccare le vette del mondo professionistico, considerato – quello
sì – il vero luogo dove si gioca la partita. Alla fine, gli esempi
non mancano, tutti sentono il desiderio di una maggiore autenticità;
e quando il mondo sportivo “vero” vuole mostrare il volto più
pulito dello sport, viene a bussare alle nostre porte…
1. Educare
Anche i cristiani fanno i figli. Quanto ad educarli, be’, ci
provano, come sanno e come possono. E non sembra che il titolo di
cristiani semplifichi loro il compito; anzi essi devono misurarsi con
una responsabilità in più, l’educazione alla fede.
Anche noi cristiani dunque vorremmo dire la nostra. Vorremmo entrare
nel dibattito; anzi riaccenderlo nel caso si fosse spento. Il punto è
che facciamo parte di un mondo dove le ragioni per cui vivere non sono
affatto evidenti. Non abbiamo soluzioni; è che, come diceva Hegel:
“non vogliamo essere migliori del nostro tempo; vogliamo essere del
nostro tempo nel modo migliore”
1.1. L’educazione: pregiudizi e giudizi
Educare è difficile
Educare è difficile. Su questo sono tutti d’accordo. E’ su tutto il
resto che non si riesce più ad intendersi. Insomma in educazione è
più quel che si fa di quel che si sa. Ma questo non deve consolare;
che l’educazione venga svolta senza sapere bene in che cosa consiste
è un fatto che deve preoccupare, poiché significa che essa viene
svolta senza sapere se è proprio così che bisogna fare. E infatti
c’è in giro un sacco di gente preoccupata. E si capisce anche, per
esempio, perché è tanto difficile che gli educatori si incontrino
seriamente con i genitori e le famiglie. Non parlo solo degli incontri
con gli insegnanti: penso anche al rapporto tra allenatori e genitori
o tra allenatori e le altre figure educative di una parrocchia o del
territorio. Schiacciati come si è dalla certezza di essere sempre e
comunque al di sotto dell’impresa, non si sopporta che qualcuno
schiaffi in faccia con sadica puntualità questa evidenza. E’ evidente
infatti che non si sa bene cosa sia educazione.
A dare contenuto a questa vuota parola sono rimasti solo i luoghi
comuni, quelli che si sfoderano nel bel mezzo delle discussioni, tipo
“educare oggi è difficile; ma è colpa del benessere… se volete il
mio parere – interviene un altro – oggi non c’è più rispetto…;
no – fa un altro ancora – è che tutti delegano…; è vero,
interviene l’ultima, e poi ai nostri tempi a tavola si mangiava quel
che ti mettevano sul piatto… e non c’era la televisione… oggi
invece hanno mille esigenze; ma sai cosa costa oggi mantenere un
figlio? E via di questo passo finché dall’educazione si scivola a
parlare del governo ladro, o delle partite di calcio (passando
attraverso il tema degli stipendi dei calciatori) se è lunedì.
Luoghi comuni, che miracolosamente salvano capra e cavoli, e che
mettono tutti d’accordo anche se lasciano tutti insoddisfatti, con la
sensazione ancora una volta di non aver fatto la cosa giusta.
Pregiudizi e immagini
Paradossale ma vero: in un clima di incertezza ci si attenderebbe un
po’ di cautela. Invece accade proprio il contrario: tanto più non
si sa cos’è educazione, tanto più indiscutibili diventano alcuni
modi di intenderla e di farla. Ad esempio, una certa inclinazione a
definire l’educazione come “prevenzione”: si vorrebbe ridurla in
termini terapeutici, come prevenzione di disturbi vari. Si intuisce
subito che l’educazione non può essere solo questo. E tuttavia non si
saprebbe dire cos’altro ancora.
O meglio, non si saprebbe come dirlo. Bisognerebbe infatti mettere a
tema che cosa è bene e cosa non lo è, che cosa è il male e cosa non
lo è: insomma bisognerebbe tirare in ballo la questione “morale”. Ma
in fatto di morale la nostra cultura appare impacciata. E la
differenza tra bene e male, tra giusto e ingiusto, tra buono e
cattivo, viene identificata con la differenza tra benessere e
malessere, tra vantaggioso o svantaggioso. Alla fine uno dei dogmi
indiscutibili a cui si ispirano i discorsi e i luoghi comuni è che
l’educazione è quella che mira al raggiungimento del benessere fisico
e psichico, a star bene con gli altri e con sé stessi. Ma al
benessere psicofisico, più che l’educazione, si addice il fitness.
Per esprimere in modo ordinato queste prime considerazioni, possiamo
descrivere i pregiudizi sull’educazione usando due immagini.
Anzitutto l’educazione come maieutica: è il vecchio adagio per cui
non si deve trattare il ragazzo come un contenitore vuoto; il ragazzo
ha in sé già tutto. Il buon educatore deve solo tirar fuori. Veniamo
da un passato dove l’educazione veniva intesa in modo iperdirettivo e
autoritario. Per reazione a quel tipo di educazione, si ritiene che
l’educatore è buono quando si astiene il più possibile
dall’attestazione in prima persona di valori e convinzioni.
L’educatore deve semplicemente mettere a disposizione del ragazzo il
repertorio più ampio di strumenti conoscitivi e operativi: dopodiché
sarà il ragazzo che in base alle sue inclinazioni e preferenze,
opererà la sua personale sintesi. In tale prospettiva le convinzioni
personali dell’educatore finiscono per diventare un inconveniente, un
ostacolo addirittura, alla libera e autonoma realizzazione del
minore.
La seconda immagine utile è quella offerta dalla categoria dell’
“educarsi insieme”. In poche parole è quella espressa nei discorsi
tipo: “a stare con i ragazzi è più quel che si impara che quel che
si insegna; non è vero che sono gli adulti che educano i piccoli; in
realtà ci si educa a vicenda; anche gli adulti hanno molto da
imparare dai ragazzi”.
Nulla da ridire sul fatto che la relazione con i minori costringa
l’educatore a rivedere continuamente il proprio carattere, le ragioni
della propria dedizione, la qualità della propria coscienza e del
proprio agire. Il punto è che la reciprocità non dovrebbe mettere in
discussione l’altro principio per cui non si dà processo educativo
senza asimmetria cioè la presenza di uno che educa e di un altro che
viene educato. Si preferisce invece pensare l’educazione come una
sorta di processo spontaneo che si produce quasi magicamente;
semplicemente vivendo gli uni accanto agli altri e si adottano formule
del tipo, “educarsi insieme, a vicenda, io imparo da te e tu da me”.
Così accade che il ragazzo nonostante invochi la presenza di qualcuno
che lo aiuti a capire cosa nella vita merita di essere voluto e cosa
no, trova invece chi gli dice: dimmi tu che cosa vuoi. Ma è proprio
questo il punto! Che il ragazzo non lo sa. Attende di saperlo da chi
prima di lui ha conosciuto la vita e conta sul fatto che chi l’ha
messo al mondo l’abbia fatto perché c’è qualcosa di bello da
ricevere e da volere: insomma conta di sapere cosa occorre volere, per
poter vivere bene e diventare un uomo.
1.2. Ma cos’è “educazione”?
Promessa e testimonianza
Il senso dell’educazione, contrariamente a quanto i pregiudizi e i
luoghi comuni descrivono, è scritto nell’atto stesso in cui due
genitori decidono di ospitare un figlio. In quel momento hanno già
rivolto una parola a lui, anzi gli hanno già dato “la loro parola”;
è come se gli avessero detto: “non temere figlio, il mondo in cui sei
giunto è buono e la vita che stai per cominciare promette bene. Per
questo ci prenderemo cura di te, e per te daremo la nostra vita
perché anche tu, riconoscente per il dono prezioso che ti è stato
fatto, impari a volerla questa vita, a meritartela anche un poco e a
difenderla sempre, fino a diventare capace anche tu di offrirla per
altri perché anche altri possano goderne”.
Per meno di così, non varrebbe la pena accogliere un figlio; per
accoglierlo però non serve nulla di più di questo. E’ quanto basta;
ed è quanto il figlio si aspetta dopo essere stato accolto. Si
aspetta che qualcuno mantenga fede alla promessa fatta e lo aiuti a
volere la cosa giusta per non sprecare il dono buono dell’esistenza.
Fin dal primissimo momento la coscienza dei genitori è implicata; il
figlio conta sul fatto che i suoi genitori non solo gli daranno il
pane ma anche “il perché della vita”. Conta sul fatto che forniranno
anche a lui una coscienza esattamente mettendogli a disposizione la
loro.
Il principio della riconoscenza e della responsabilità
Di una fede senza condizioni il bambino ha bisogno e di questa fede ha
bisogno chi lo educa. Senza condizioni cosa significa?
Significa decidere di non ritrattare mai la propria fiducia e la
propria dedizione anche quando i casi della vita tenteranno di erodere
le ragioni della speranza e di cancellare la memoria del volto
persuasivo dell’esistenza. Ricredersi significherebbe dover dire al
figlio: “scusami ma mi sono sbagliato. La vita che ti ho trasmesso non
è degna di fiducia come credevo; mi dispiace”. Sarebbe a quel punto
che lo sguardo deluso e disperato dei figli ci inchioderebbe alla
nostra responsabilità: essi si sono fidati di noi. Non possiamo
sottrarci a questo compito a meno di sentirci per sempre dei
vigliacchi.
Volteremmo le spalle al più elementare dei principi che presiedono al
vivere: quello della riconoscenza. Educare è fondamentalmente
questione di riconoscenza: educare infatti consiste nel dare il meglio
di sé stessi in maniera che il giovane che siamo stati non debba
vergognarsi di ciò che siamo diventati.
Lo persuaderà: ma a condizione che qualcuno si faccia testimone
presso di lui di cosa significa vivere e gli trasmetterà con pazienza
e coraggio, umiltà e tenacia, saggezza e audacia l’arte di saper
stabilire patti di fedeltà con il prossimo e con la vita. L’arte di
decidersi per una vita buona. Se si educa, si educa a questo;
altrimenti non si educa.
Nutrire delle attese: la buona testimonianza
Un buon educatore, si dice, non deve pretendere che i figli diventino
a sua immagine e somiglianza; ma dal momento che il figlio non sa cosa
si debba volere e non volere, è evidente che la possibilità che il
figlio acconsenta all’invito a nozze che la vita (Dio stesso) gli
rivolge, passa attraverso le attese che i genitori e gli educatori
elevano nei suoi confronti. Il figlio, per sapere cosa “lui” deve
volere, deve avere le idee chiare su cosa “da lui” ci si attende. La
percezione che nei propri confronti non esiste attesa alcuna, genera
la sensazione inquietante di non essere attesi, in qualche modo di non
essere voluti: “se da me non si aspettano nulla significa che non mi
considerano, mi ignorano, non hanno fiducia in me”.
Com’è che il figlio riesce a decifrare queste attese? Non certo a
partire da qualche predicozzo. Piuttosto dalla considerazione della
qualità concreta della vita degli educatori.
Non ricevendo una parola affidabile, i bambini diventano adulti
incapaci di dare la parola, cioè di promettere fedeltà e legami
duraturi. Più che dalla volontà si lasceranno istruire dalle voglie,
in attesa che l’esperimento della vita possa prima o poi istruirli su
ciò che merita fiducia. Non è un caso che la malattia più diffusa
nelle giovani generazioni sia una volontà debole: non è però
questione di mancanza di “buona volontà”, ma soprattutto di “non
saper volere e cosa volere”.
Oltre le attese degli educatori
Il ragazzo ha dunque assoluto bisogno delle attese degli educatori per
conoscere l’attesa che la vita (addirittura Dio) eleva nei suoi
confronti. Ma è altrettanto vero che per diventare un uomo deve
emanciparsi da tali attese. Esse sono servite ad istruirlo sulla
direzione da intraprendere.
C’è però il rischio che il ragazzo faccia ciò che da lui ci si
attende ma senza acconsentirvi interiormente, che in qualche modo
“reciti”; che cioè in ciò che fa non cerchi la propria identità ma
semplicemente la propria affermazione presso lo sguardo degli altri.
Ciò che conta è “partecipare”, più o meno a tutto, pena l’essere
escluso da qualcosa, il non essere aggiornati, il non essere
socializzati. Il rischio della “recita” – “per sviluppare la
creatività e favorire l’autostima” si dice, nei fatti corre il
rischio di accrescere la sua insicurezza invece della sua autostima. E
certamente favorisce quelle scadenti tendenze a recitare e a mimare il
mondo adulto maturando delle abilità; ma appunto solo delle abilità,
mentre per diventare uomini occorrerebbe sviluppare delle virtù.
Non si tratta allora di aiutare il figlio a corrispondere
semplicemente alle proprie attese ma addirittura a quelle di Dio.
2. Nelle storie di vita
Perché ho richiamato in modo così forte l’esperienza educativa?
Perché a chi si occupa di sport?
Perché troppo in fretta si liquida la faccenda dicendo che lo sport
è educativo. Come se lo fosse tout court. Come se bastasse buttar
giù un pallone in un campetto e farlo rotolare, per sentire di aver
avviato un buon percorso educativo. Ci vuol altro; ovviamente.
E non si tratta, qui, di spaccarsi la testa per vedere come le teorie
educative possono entrare in dialogo con l’attività sportiva. Si
tratta, piuttosto, di prendere coscienza delle possibilità educative
che lo sport offre ai ragazzi e alle loro famiglie per capire come
possiamo sfruttarle. Per sostenere il cammino dei ragazzi, per essere
interlocutori validi e autorevoli presso le famiglie, per fare
comunità.
Lo sport, rappresentazione della vita
Lo sanno bene i ragazzi, ma lo riconoscono ancora di più gli adulti:
lo sport, preso sul serio, è capace di rappresentare la vita. Perché
l’elemento costitutivo di ogni pratica sportiva è il gioco. Una
faccenda tremendamente seria: si delimita uno spazio e un tempo, si
danno delle regole e si comincia a giocare perché la più totale
libertà possa coinvolgere chi partecipa a questo mondo. Nel gioco
possiamo assumere un ruolo, per trovare noi stessi. E allora scatta un
meccanismo: quello che prevede di far entrare del tutto gratuitamente
ogni elemento importante della vita. Si vince e si perde (ma mai
definitivamente: c’è sempre un campionato che ricomincia, c’è
sempre la prossima sfida, c’è sempre un’altra possibilità); si
scoprono le proprie possibilità (la prima volta che ho fatto i conti
con la mia altezza, avevo cinque anni: quando la suora all’asilo mi
ha messo in porta perché ero il più alto; e lì ho iniziato a
realizzare che il mio corpo aveva delle misure non proprio canoniche)
e si trova il proprio posto; si entra in relazione con gli altri e si
impara a stare in squadra, e insieme agli altri ci si mette di fronte
a degli spettatori pronti a giudicarti. E ancora: si entra in contatto
con le regole, si impara a non fare da soli. Quanto potremmo andare
avanti ancora?
Dentro il meccanismo del gioco c’è tutta, ma proprio tutta la vita.
E molti dei nostri ragazzi la incontrano così: uscendo magari da
contesti familiari o sociali drammatici, e ritrovandola in una sorta
di redenzione e di liberazione nell’esperienza sportiva.
Lo sport, contesto di comunità
Sono anni che si dice della fatica, ma anche del bisogno di fare
comunità. Lo sport, di solito, significa potersi mettere insieme.
L’attività sportiva ha bisogno delle mani e delle braccia di tutti:
c’è un’organizzazione da mettere in piedi, ci sono spazi da
pulire e mantenere, ci sono tempi e momenti di incontro come
l’allenamento e la partita. Insomma, quanti e quali sono i
protagonisti che sono chiamati a mettere qualcosa di loro per
l’attività di tutti?
Fare sport significa quasi automaticamente fare comunità. O meglio,
significa avere a disposizione uno strumento formidabile per fare
comunità. Ma questo funziona a condizione che la gestione della
società sia effettivamente in dialogo con il resto della comunità.
Perché quando la società sportiva diventa autoreferenziale, allora
sono guai. Lo spazio del gioco diventa un recinto invalicabile, un
fortino dentro il quale non può entrare nessuno, uno spazio da
difendere con le unghie e con i denti.
Peccato perché non solo si perdono delle opportunità, ma si
cominciano a combinare un sacco di guai. Come, per esempio, quello di
spingere i ragazzi verso l’agonismo esasperato, verso l’idea che
quello che fanno è insindacabile e intoccabile, verso un mondo che
non è più rappresentativo della vita di tutti, ma del modello di
qualcuno. Cioè di quei modelli che tanto critichiamo: quelli dei
giocatori strapagati e viziati. E infatti ci vantiamo nel dire che
dall’oratorio esce un talento come Balotelli, ma evitiamo di dire
che – forse – se avesse incontrato qualcuno capace di educarlo
anche umanamente, oggi non saremmo qui ad aspettare l’uomo dopo aver
visto all’opera il campione.
Le alleanze educative
E qui viene spontaneo pensare al tema delle alleanze educative. Lo
sport è un linguaggio, importante, come abbiamo visto. Importante
perché potente nella sua capacità di rappresentare la vita e di fare
comunità. Importante perché se usato a dovere riesce effettivamente
a entrare in sintonia (e in empatia) con i ragazzi. Uno dei principi
pastorali più assodati dal Concilio a oggi, è che i cristiani –
quando educano – non sono preoccupati di “passare” solo dei
valori, di “insegnare” dei precetti o dei contenuti: altrimenti
leggeremmo l’educazione solo come una cosa che riguarda
l’intelletto. L’educazione è una faccenda che deve coinvolgere la
globalità della persona: che è un espressione per dire,
semplicemente, che o si coinvolgono tutti gli aspetti dell’esistenza
o non si educa.
E dunque va ricordata l’importanza di vivere lo sport come uno dei
linguaggi capaci di coinvolgere totalmente i ragazzi, di inserirli in
un percorso buono che li faccia crescere.
Ma educare, oggi, non è compito che può essere affidato solo a
qualcuno. Educare è una faccenda della comunità intera, che deve far
sentire tutti i soggetti coinvolti e nello stesso tempo deve impegnare
tutti a mettere a disposizione le proprie competenze.
Per costruire progetti educativi che siano armonici: dove non esiste
semplicemente la buona volontà di non pestarsi i piedi negli spazi
della settimana, programmando calendari perfetti che mettano ciascuno
su binari paralleli che non si incontrano mai.
Progetti buoni devono prevedere il riconoscimento reciproco alla
dignità di sentirsi soggetti educativi; devono prevedere spazi e
tempi dove si guarda insieme ai ragazzi di cui ci si sta occupando,
condividendo i loro bisogni e cercando di coinvolgere tutte le
risorse; devono avere il coraggio di ritagliarsi spazi di verifica
dove ci si confronta non come se si fosse seduti su una sorta di banco
degli imputati, ma dove si volge insieme lo sguardo su quei ragazzi
(che poi sono sempre gli stessi) che circolano nei nostri ambienti
educativi, ci si scambiano impressioni e convinzioni, perché
l’educazione sia davvero un gioco di squadra.
Per concludere
Il Csi ha una grande tradizione di chiesa: soltanto tenendola viva,
saprà continuare a servirla efficacemente. Soltanto tenendo saldo il
legame con la comunità e il territorio continuerà a rispondere alla
fatica educativa di tutti offrendo un contributo preziosissimo. Che è
poi qualcosa di specifico che nessun altro è oggi in grado di offrire
alla comunità cristiana. Vivere nel mondo contemporaneo significa
accettare di giocare le sfide pastorali delle nostre parrocchie,
considerando questo come un tempo ancora pieno di opportunità. A
questo proposito indichiamone alcune a titolo esemplificativo.
Il dialogo. Prima di tutto il mutamento della realtà storica, nella
quale la Chiesa vive il suo compito, chiede che si metta in atto un
dialogo con la modernità. E qui pensiamo a quanto può essere
prezioso il dialogo che il mondo sportivo riesce a intrattenere con i
mondi anche più lontani dalla chiesa. Pensiamo a quanto sia più
facile fare integrazione attraverso lo sport con tutto il mondo di chi
proviene da altri paesi, culture e religioni.
La nuova evangelizzazione. In un contesto fortemente segnato
dall’autoreferenzialità del soggetto, il vangelo della grazia è la
verità che va proclamata e testimoniata. Mostrare la gratuità nello
stile di vivere, di rendere ragione delle cose, di fare comunità,
forse è ciò che può interrogare e far pensare il mondo moderno,
aprendo le possibilità di accoglienza evangelica.
La presenza ecclesiale. Uno stile nuovo di Chiesa è non solo
auspicato, ma fortemente efficace. Questo significa una capacità
coraggiosa di giocare una presenza pubblica e significativa nel
sociale, senza ricerca di privilegi e di visibilità a tutti costi; la
disponibilità ad entrare nei dibattiti pubblici mettendosi in gioco e
non presumendo che la verità cristiana sia accolta solo come tale, ma
mostrando come questa verità abbia a che fare con la vita dell’uomo
e come, in qualche modo, trovi in tale esperienza umana già delle
anticipazioni e delle prospettive di senso. In altre parole, si tratta
di farsi carico della storia di oggi sentendosene parte,
condividendone “gioie e speranze”.
Le opportunità della parrocchia e della diocesi. Infine, il luogo di
una comunità cristiana come la parrocchia è particolarmente
significativo per poter recuperare il senso vero della Chiesa. Essa,
infatti, non può ridursi a rappresentare il nido caldo in cui le
relazioni fra i pochi intimi è fortemente centrata sull’emozione, e
nemmeno a burocratica agenzia di soddisfacimento dei bisogni e delle
aspirazioni del soggetto. Essa costituisce, invece, il luogo in cui il
singolo credente impara a vivere nei rapporti quotidiani la qualità
evangelica della vita fraterna, e in cui è chiamato, senza rinunciare
alla sua soggettività, a reinterpretare la sua identità
nell’ottica della fede.
Qualche volta possiamo avere l’impressione che questa è
un’impresa impossibile. E allora torniamo, per un momento, alla
parole del racconto di Guareschi, quando don Camillo – sconsolato
– si ritrova a dialogare con il Cristo dell’altare.
Mi presento: sono il più anziano tesserato di calcio balilla e gioco nella squadra “Sansone B”, ho 68 anni e una passione innata per questo sport, che pratico dall’età di 11 anni.
Ho cominciato a Calolziocorte, dove, durante la pausa di mezzogiorno della scuola “avviamento al lavoro”, si andava all’oratorio e si giocava pagando 20 lire a partita; poi ho proseguito a Villasola, con i miei coetanei e con il curato don Andrea Gherardelli (memorabili sono state le partite con il don).
Dopo un periodo di “vuoto” dal 1968 al 1975, sono arrivate le schiere degli attuali quarantenni, tutti chierichetti (Massimo, Luca, Roberto, etc.) che, dopo il servizio alla S. Messa, venivano con me in oratorio, dove facevamo grandi partite.
Dopo un altro periodo di pausa, a rilanciare questo sport, nel 2011, sono arrivati i nostri parroco e vice-parroco, don Roberto e don Enrico, entrambi appassionati e molto validi giocatori.
Con la nascita di Sansone calcio balilla, abbiamo formato due squadre di sei giocatori ciascuna e abbiamo ottenuto anche dei buoni risultati nei vari tornei a cui abbiamo partecipato.
Facciamo due allenamenti settimanali e invito i ragazzi, i giovani e gli adulti a partecipare con noi agli allenamenti per provare l’effetto dell’adrenalina scatenata dagli incontri ad alto livello.
Ringrazio tutti i fondatori di questa associazione sportiva e tutti i miei compagni di squadra e di disciplina, i quali, data la mia veneranda età di giocatore, mi considerano la mascotte del gruppo… di solito la mascotte è un bambino, ma si sa bene che, diventando vecchi, si diventa anche un po’ bambini…
Di nuovo grazie di cuore a tutti coloro che mettono il loro impegno nelle attività della nostra ASD Sansone oratorio, al servizio delle parrocchie della nostra UP.
Ciao a tutti e FORZA SANSONE!
Bruno