Convegno Nazionale del Centro Sportivo Italiano Assisi – 7 dicembre 2013
Convegno Nazionale del Centro Sportivo Italiano
Assisi – 7 dicembre 2013
Lo sport e l’uomo:
esperienza di fede, storie di vita
don Michele Falabretti
“Qui non siamo tra gente rozza e selvaggia come nell’ambiente di quelli là” concluse sorridendo don Camillo. “E possiamo ragionare da gentiluomini assennati. Con l’aiuto di Dio gli appiccicheremo sei goal a zero. Io non faccio minacce: io dico semplicemente che l’onore della parrocchia è nelle vostre mani. Anzi: nei vostri piedi. Ognuno faccia il suo dovere di buon cittadino. Se poi, naturalmente, c’è qualche barabba che non ce la mette tutta fino all’ultima goccia, io mica faccio le tragedie di Peppone che spacca le facce! Io gli polverizzo il sedere a pedate!”.
Giovanni Guareschi, La Disfatta in Don Camillo, 1948.
Introduzione
Giocherò a carte scoperte. E partiamo da quello che è successo a Torino domenica sera. I fatti li conosciamo tutti: una curva viene squalificata e dentro ci mettiamo i bambini. Bello! Solo che a un certo punto dodicimila (non due…) bambini cominciano il giochetto di insultare il portiere della squadra avversaria ogni volta che rinvia il pallone. Risultato: 5.000 euro di multa alla società.
Che dire? Be’, ce ne sarebbero molte di cose da dire e forse questo episodio ci aiuterà oggi a riflettere insieme. Non vogliamo fare i moralisti ed esagerare un episodio che ha del grottesco. Ma non possiamo nemmeno sorvolare. Qui non si tratta di valutare l’episodio o di metterli al muro per una parolaccia. È il fatto che questi piccoli si siano subito lasciati prendere dai vizi dei grandi, che ci fa pensare. Qualche volta viene da pensare: non ce la faremo mai…
Una cosa la voglio dire subito: a me sembra che l’errore grave sia stato quello di pensare che fosse sufficiente mettere un po’ di ragazzi in curva – lasciandoli lì, da soli; una soluzione “corta” e molto ingenua, capace di produrre un problema ancora più grosso da gestire. Chi l’ha detto che i bambini sono bravi e buoni? Chi l’ha detto che i preadolescenti non imparano in fretta dai difetti degli adulti? La cosa grave non sono gli insulti dei ragazzi: la cosa grave è che gli adulti si sottraggano al loro compito di accompagnare i più piccoli, di non lasciarli soli nelle loro esperienze di vita. Perché nessuno li ha “guidati” a fare i cori? Ci siamo dimenticati che nessuna curva canta da sola? Che ha i suoi direttori d’orchestra?
E qui mi piace pensare a un concetto diverso di educazione. Chi sta diventando grande ha bisogno di percorrere un cammino, ma anche di perdersi un po’. Il suo perdersi non è sempre un errore: più spesso è un errare che dice il bisogno di ognuno di cercare e trovare il senso dell’essere nel mondo. Fa parte dell’ormai famosa “emergenza educativa” la necessità di educatori che si facciano compagni di strada, che sappiano perdere pazientemente tempo ed energie, che sappiano esprimere una passione profonda per ogni persona che incontrano nel loro mandato. Educatori che sappiano decentrarsi dalle proprie figure e certezze, perché le tensioni di chi è loro affidato sono le priorità del loro compito. E perché soltanto quando si cammina insieme si scoprono i tratti della Verità.
A me pare che siano maturi i tempi per cominciare a volare un po’. La questione educativa ci aiuta a uscire dagli schemi di chi cerca nella fede un marchietto da appiccicare ovunque; così, tanto per mettersi al riparo. Dal “si è sempre fatto così!” al “teniamo i ragazzi lontano dalla strada”, anche i nostri ambienti (compresi quelli che si dedicano all’attività sportiva) non sono esenti dalla tentazione degli slogan. E quindi proviamo ad andare con ordine, almeno su alcune questioni iniziali.
Il volto e lo sguardo
Quando ci occupiamo di educazione, andiamo spesso – subito – alla ricerca di un metodo. Proprio perché viviamo “in un mondo che cambia” (e dovremmo anche dire che è già di molto cambiato) ci sentiamo smarriti. Ciò che funzionava fino a ieri, sembra essere oggi fortemente inadeguato. E rischiamo di vivere di espedienti, di “trovate” pronte per essere confezionate e distribuite ovunque.
Invece l’educazione è come un’impresa titanica, mai finita, mai ferma nei suoi schemi, nei punti di riferimento che abbiamo bisogno di trovare. Lo sguardo, dunque, non va sulle cose da fare o su come farle. Il primo sguardo va sulle persone: quelle che incontriamo oggi nei nostri campetti di periferia. Noi vorremmo allenare ragazzi che fossero già maturi e pronti per la vita, oltre che tecnicamente ben dotati. E invece ci vengono affidati ragazzi da far crescere.
Far emergere il volto dei nostri giovani è una questione prioritaria: mai come oggi il loro volto è in continuo e radicale mutamento: quando pensiamo di averli conosciuti, cominciano già a cambiare. Ma il volto lo si riconosce attraverso lo sguardo. E il modo di guardare non è mai neutro. Intanto perché abbiamo a che fare con delle persone; poi anche perché le nostre precomprensioni generano atteggiamenti che saranno determinanti nelle nostre azioni. Un conto è pensare di poterci rivolgere a persone che sono in grado di esprimere la propria libertà attraverso la fede cristiana. Diverso è credere di avere di fronte solo una serie di “errori” da emendare.
Per questo – iniziando – mi pare giusto sottolineare il carattere che deve avere lo sguardo sul mondo giovanile. Dobbiamo fare lo sforzo di non pensare ai giovani come al concentrato dei mali del mondo: essi portano con sé una novità di cui a volte abbiamo timore perché non la conosciamo. Portano con sé istanze che non sono tutte da accettare e da assecondare.
Ma soltanto se riusciamo ad avere uno sguardo buono su di loro, soltanto se riusciamo a credere profondamente che saranno in grado di affrontare il futuro portando nel cuore un po’ delle nostre ragioni – ma esprimendone anche di nuove – avrà un senso cercare di comunicare loro la nostra fede e la nostra speranza che è Gesù Cristo.
Trasmettere la fede
Vi chiederete cosa c’entra il discorso che ho appena fatto con il mondo dello sport. L’esperienza del Csi è quella di un’associazione ecclesiale: un gruppo (oggi molto consistente) di cristiani che si mettono insieme per animare la vita della chiesa. Per far sì, cioè, che essa possa essere ancora quella realtà che permette agli uomini di incontrare Gesù Cristo. Che questo sia fatto attraverso lo sport, non sminuisce (e nemmeno accresce) l’attività del Csi all’interno della chiesa stessa: il punto è che lo sport va riconosciuto come un’attività importante nella vita dell’uomo di oggi e dei più giovani in particolare.
E qui arriviamo alla questione educativa. C’è un po’ odore di muffa quando si liquida la questione dietro lo slogan (perché ormai tale è diventato) dell’”emergenza educativa”: gridare in continuazione “al lupo, al lupo!” non aiuta. E nemmeno serve il piagnisteo di chi continua a tenere nel cuore la nostalgia per “i bei tempi andati”. Se viviamo in un mondo che non condivide più i valori cristiani, facciamocene una ragione; perché questo non significa che i valori cristiani non possano trovare spazio nel cuore dell’uomo di oggi. Forse il problema è nostro e non “degli altri”.
Attenzione, poi, anche a un altro rischio: quello di sentirsi relegati a sport di secondo piano, quello di vivere costantemente nel desiderio di toccare le vette del mondo professionistico, considerato – quello sì – il vero luogo dove si gioca la partita. Alla fine, gli esempi non mancano, tutti sentono il desiderio di una maggiore autenticità; e quando il mondo sportivo “vero” vuole mostrare il volto più pulito dello sport, viene a bussare alle nostre porte…
1. Educare
Anche i cristiani fanno i figli. Quanto ad educarli, be’, ci provano, come sanno e come possono. E non sembra che il titolo di cristiani semplifichi loro il compito; anzi essi devono misurarsi con una responsabilità in più, l’educazione alla fede.
Anche noi cristiani dunque vorremmo dire la nostra. Vorremmo entrare nel dibattito; anzi riaccenderlo nel caso si fosse spento. Il punto è che facciamo parte di un mondo dove le ragioni per cui vivere non sono affatto evidenti. Non abbiamo soluzioni; è che, come diceva Hegel: “non vogliamo essere migliori del nostro tempo; vogliamo essere del nostro tempo nel modo migliore”
1.1. L’educazione: pregiudizi e giudizi
Educare è difficile
Educare è difficile. Su questo sono tutti d’accordo. E’ su tutto il resto che non si riesce più ad intendersi. Insomma in educazione è più quel che si fa di quel che si sa. Ma questo non deve consolare; che l’educazione venga svolta senza sapere bene in che cosa consiste è un fatto che deve preoccupare, poiché significa che essa viene svolta senza sapere se è proprio così che bisogna fare. E infatti c’è in giro un sacco di gente preoccupata. E si capisce anche, per esempio, perché è tanto difficile che gli educatori si incontrino seriamente con i genitori e le famiglie. Non parlo solo degli incontri con gli insegnanti: penso anche al rapporto tra allenatori e genitori o tra allenatori e le altre figure educative di una parrocchia o del territorio. Schiacciati come si è dalla certezza di essere sempre e comunque al di sotto dell’impresa, non si sopporta che qualcuno schiaffi in faccia con sadica puntualità questa evidenza. E’ evidente infatti che non si sa bene cosa sia educazione.
A dare contenuto a questa vuota parola sono rimasti solo i luoghi comuni, quelli che si sfoderano nel bel mezzo delle discussioni, tipo “educare oggi è difficile; ma è colpa del benessere… se volete il mio parere – interviene un altro – oggi non c’è più rispetto…; no – fa un altro ancora – è che tutti delegano…; è vero, interviene l’ultima, e poi ai nostri tempi a tavola si mangiava quel che ti mettevano sul piatto… e non c’era la televisione… oggi invece hanno mille esigenze; ma sai cosa costa oggi mantenere un figlio? E via di questo passo finché dall’educazione si scivola a parlare del governo ladro, o delle partite di calcio (passando attraverso il tema degli stipendi dei calciatori) se è lunedì. Luoghi comuni, che miracolosamente salvano capra e cavoli, e che mettono tutti d’accordo anche se lasciano tutti insoddisfatti, con la sensazione ancora una volta di non aver fatto la cosa giusta.
Pregiudizi e immagini
Paradossale ma vero: in un clima di incertezza ci si attenderebbe un po’ di cautela. Invece accade proprio il contrario: tanto più non si sa cos’è educazione, tanto più indiscutibili diventano alcuni modi di intenderla e di farla. Ad esempio, una certa inclinazione a definire l’educazione come “prevenzione”: si vorrebbe ridurla in termini terapeutici, come prevenzione di disturbi vari. Si intuisce subito che l’educazione non può essere solo questo. E tuttavia non si saprebbe dire cos’altro ancora.
O meglio, non si saprebbe come dirlo. Bisognerebbe infatti mettere a tema che cosa è bene e cosa non lo è, che cosa è il male e cosa non lo è: insomma bisognerebbe tirare in ballo la questione “morale”. Ma in fatto di morale la nostra cultura appare impacciata. E la differenza tra bene e male, tra giusto e ingiusto, tra buono e cattivo, viene identificata con la differenza tra benessere e malessere, tra vantaggioso o svantaggioso. Alla fine uno dei dogmi indiscutibili a cui si ispirano i discorsi e i luoghi comuni è che l’educazione è quella che mira al raggiungimento del benessere fisico e psichico, a star bene con gli altri e con sé stessi. Ma al benessere psicofisico, più che l’educazione, si addice il fitness.
Per esprimere in modo ordinato queste prime considerazioni, possiamo descrivere i pregiudizi sull’educazione usando due immagini.
Anzitutto l’educazione come maieutica: è il vecchio adagio per cui non si deve trattare il ragazzo come un contenitore vuoto; il ragazzo ha in sé già tutto. Il buon educatore deve solo tirar fuori. Veniamo da un passato dove l’educazione veniva intesa in modo iperdirettivo e autoritario. Per reazione a quel tipo di educazione, si ritiene che l’educatore è buono quando si astiene il più possibile dall’attestazione in prima persona di valori e convinzioni. L’educatore deve semplicemente mettere a disposizione del ragazzo il repertorio più ampio di strumenti conoscitivi e operativi: dopodiché sarà il ragazzo che in base alle sue inclinazioni e preferenze, opererà la sua personale sintesi. In tale prospettiva le convinzioni personali dell’educatore finiscono per diventare un inconveniente, un ostacolo addirittura, alla libera e autonoma realizzazione del minore.
La seconda immagine utile è quella offerta dalla categoria dell’ “educarsi insieme”. In poche parole è quella espressa nei discorsi tipo: “a stare con i ragazzi è più quel che si impara che quel che si insegna; non è vero che sono gli adulti che educano i piccoli; in realtà ci si educa a vicenda; anche gli adulti hanno molto da imparare dai ragazzi”.
Nulla da ridire sul fatto che la relazione con i minori costringa l’educatore a rivedere continuamente il proprio carattere, le ragioni della propria dedizione, la qualità della propria coscienza e del proprio agire. Il punto è che la reciprocità non dovrebbe mettere in discussione l’altro principio per cui non si dà processo educativo senza asimmetria cioè la presenza di uno che educa e di un altro che viene educato. Si preferisce invece pensare l’educazione come una sorta di processo spontaneo che si produce quasi magicamente; semplicemente vivendo gli uni accanto agli altri e si adottano formule del tipo, “educarsi insieme, a vicenda, io imparo da te e tu da me”. Così accade che il ragazzo nonostante invochi la presenza di qualcuno che lo aiuti a capire cosa nella vita merita di essere voluto e cosa no, trova invece chi gli dice: dimmi tu che cosa vuoi. Ma è proprio questo il punto! Che il ragazzo non lo sa. Attende di saperlo da chi prima di lui ha conosciuto la vita e conta sul fatto che chi l’ha messo al mondo l’abbia fatto perché c’è qualcosa di bello da ricevere e da volere: insomma conta di sapere cosa occorre volere, per poter vivere bene e diventare un uomo.
1.2. Ma cos’è “educazione”?
Promessa e testimonianza
Il senso dell’educazione, contrariamente a quanto i pregiudizi e i luoghi comuni descrivono, è scritto nell’atto stesso in cui due genitori decidono di ospitare un figlio. In quel momento hanno già rivolto una parola a lui, anzi gli hanno già dato “la loro parola”; è come se gli avessero detto: “non temere figlio, il mondo in cui sei giunto è buono e la vita che stai per cominciare promette bene. Per questo ci prenderemo cura di te, e per te daremo la nostra vita perché anche tu, riconoscente per il dono prezioso che ti è stato fatto, impari a volerla questa vita, a meritartela anche un poco e a difenderla sempre, fino a diventare capace anche tu di offrirla per altri perché anche altri possano goderne”.
Per meno di così, non varrebbe la pena accogliere un figlio; per accoglierlo però non serve nulla di più di questo. E’ quanto basta; ed è quanto il figlio si aspetta dopo essere stato accolto. Si aspetta che qualcuno mantenga fede alla promessa fatta e lo aiuti a volere la cosa giusta per non sprecare il dono buono dell’esistenza.
Fin dal primissimo momento la coscienza dei genitori è implicata; il figlio conta sul fatto che i suoi genitori non solo gli daranno il pane ma anche “il perché della vita”. Conta sul fatto che forniranno anche a lui una coscienza esattamente mettendogli a disposizione la loro.
Il principio della riconoscenza e della responsabilità
Di una fede senza condizioni il bambino ha bisogno e di questa fede ha bisogno chi lo educa. Senza condizioni cosa significa?
Significa decidere di non ritrattare mai la propria fiducia e la propria dedizione anche quando i casi della vita tenteranno di erodere le ragioni della speranza e di cancellare la memoria del volto persuasivo dell’esistenza. Ricredersi significherebbe dover dire al figlio: “scusami ma mi sono sbagliato. La vita che ti ho trasmesso non è degna di fiducia come credevo; mi dispiace”. Sarebbe a quel punto che lo sguardo deluso e disperato dei figli ci inchioderebbe alla nostra responsabilità: essi si sono fidati di noi. Non possiamo sottrarci a questo compito a meno di sentirci per sempre dei vigliacchi.
Volteremmo le spalle al più elementare dei principi che presiedono al vivere: quello della riconoscenza. Educare è fondamentalmente questione di riconoscenza: educare infatti consiste nel dare il meglio di sé stessi in maniera che il giovane che siamo stati non debba vergognarsi di ciò che siamo diventati.
Lo persuaderà: ma a condizione che qualcuno si faccia testimone presso di lui di cosa significa vivere e gli trasmetterà con pazienza e coraggio, umiltà e tenacia, saggezza e audacia l’arte di saper stabilire patti di fedeltà con il prossimo e con la vita. L’arte di decidersi per una vita buona. Se si educa, si educa a questo; altrimenti non si educa.
Nutrire delle attese: la buona testimonianza
Un buon educatore, si dice, non deve pretendere che i figli diventino a sua immagine e somiglianza; ma dal momento che il figlio non sa cosa si debba volere e non volere, è evidente che la possibilità che il figlio acconsenta all’invito a nozze che la vita (Dio stesso) gli rivolge, passa attraverso le attese che i genitori e gli educatori elevano nei suoi confronti. Il figlio, per sapere cosa “lui” deve volere, deve avere le idee chiare su cosa “da lui” ci si attende. La percezione che nei propri confronti non esiste attesa alcuna, genera la sensazione inquietante di non essere attesi, in qualche modo di non essere voluti: “se da me non si aspettano nulla significa che non mi considerano, mi ignorano, non hanno fiducia in me”.
Com’è che il figlio riesce a decifrare queste attese? Non certo a partire da qualche predicozzo. Piuttosto dalla considerazione della qualità concreta della vita degli educatori.
Non ricevendo una parola affidabile, i bambini diventano adulti incapaci di dare la parola, cioè di promettere fedeltà e legami duraturi. Più che dalla volontà si lasceranno istruire dalle voglie, in attesa che l’esperimento della vita possa prima o poi istruirli su ciò che merita fiducia. Non è un caso che la malattia più diffusa nelle giovani generazioni sia una volontà debole: non è però questione di mancanza di “buona volontà”, ma soprattutto di “non saper volere e cosa volere“.
Oltre le attese degli educatori
Il ragazzo ha dunque assoluto bisogno delle attese degli educatori per conoscere l’attesa che la vita (addirittura Dio) eleva nei suoi confronti. Ma è altrettanto vero che per diventare un uomo deve emanciparsi da tali attese. Esse sono servite ad istruirlo sulla direzione da intraprendere.
C’è però il rischio che il ragazzo faccia ciò che da lui ci si attende ma senza acconsentirvi interiormente, che in qualche modo “reciti”; che cioè in ciò che fa non cerchi la propria identità ma semplicemente la propria affermazione presso lo sguardo degli altri. Ciò che conta è “partecipare”, più o meno a tutto, pena l’essere escluso da qualcosa, il non essere aggiornati, il non essere socializzati. Il rischio della “recita” – “per sviluppare la creatività e favorire l’autostima” si dice, nei fatti corre il rischio di accrescere la sua insicurezza invece della sua autostima. E certamente favorisce quelle scadenti tendenze a recitare e a mimare il mondo adulto maturando delle abilità; ma appunto solo delle abilità, mentre per diventare uomini occorrerebbe sviluppare delle virtù.
Non si tratta allora di aiutare il figlio a corrispondere semplicemente alle proprie attese ma addirittura a quelle di Dio.
2. Nelle storie di vita
Perché ho richiamato in modo così forte l’esperienza educativa? Perché a chi si occupa di sport?
Perché troppo in fretta si liquida la faccenda dicendo che lo sport è educativo. Come se lo fosse tout court. Come se bastasse buttar giù un pallone in un campetto e farlo rotolare, per sentire di aver avviato un buon percorso educativo. Ci vuol altro; ovviamente.
E non si tratta, qui, di spaccarsi la testa per vedere come le teorie educative possono entrare in dialogo con l’attività sportiva. Si tratta, piuttosto, di prendere coscienza delle possibilità educative che lo sport offre ai ragazzi e alle loro famiglie per capire come possiamo sfruttarle. Per sostenere il cammino dei ragazzi, per essere interlocutori validi e autorevoli presso le famiglie, per fare comunità.
Lo sport, rappresentazione della vita
Lo sanno bene i ragazzi, ma lo riconoscono ancora di più gli adulti: lo sport, preso sul serio, è capace di rappresentare la vita. Perché l’elemento costitutivo di ogni pratica sportiva è il gioco. Una faccenda tremendamente seria: si delimita uno spazio e un tempo, si danno delle regole e si comincia a giocare perché la più totale libertà possa coinvolgere chi partecipa a questo mondo. Nel gioco possiamo assumere un ruolo, per trovare noi stessi. E allora scatta un meccanismo: quello che prevede di far entrare del tutto gratuitamente ogni elemento importante della vita. Si vince e si perde (ma mai definitivamente: c’è sempre un campionato che ricomincia, c’è sempre la prossima sfida, c’è sempre un’altra possibilità); si scoprono le proprie possibilità (la prima volta che ho fatto i conti con la mia altezza, avevo cinque anni: quando la suora all’asilo mi ha messo in porta perché ero il più alto; e lì ho iniziato a realizzare che il mio corpo aveva delle misure non proprio canoniche) e si trova il proprio posto; si entra in relazione con gli altri e si impara a stare in squadra, e insieme agli altri ci si mette di fronte a degli spettatori pronti a giudicarti. E ancora: si entra in contatto con le regole, si impara a non fare da soli. Quanto potremmo andare avanti ancora?
Dentro il meccanismo del gioco c’è tutta, ma proprio tutta la vita. E molti dei nostri ragazzi la incontrano così: uscendo magari da contesti familiari o sociali drammatici, e ritrovandola in una sorta di redenzione e di liberazione nell’esperienza sportiva.
Lo sport, contesto di comunità
Sono anni che si dice della fatica, ma anche del bisogno di fare comunità. Lo sport, di solito, significa potersi mettere insieme. L’attività sportiva ha bisogno delle mani e delle braccia di tutti: c’è un’organizzazione da mettere in piedi, ci sono spazi da pulire e mantenere, ci sono tempi e momenti di incontro come l’allenamento e la partita. Insomma, quanti e quali sono i protagonisti che sono chiamati a mettere qualcosa di loro per l’attività di tutti?
Fare sport significa quasi automaticamente fare comunità. O meglio, significa avere a disposizione uno strumento formidabile per fare comunità. Ma questo funziona a condizione che la gestione della società sia effettivamente in dialogo con il resto della comunità. Perché quando la società sportiva diventa autoreferenziale, allora sono guai. Lo spazio del gioco diventa un recinto invalicabile, un fortino dentro il quale non può entrare nessuno, uno spazio da difendere con le unghie e con i denti.
Peccato perché non solo si perdono delle opportunità, ma si cominciano a combinare un sacco di guai. Come, per esempio, quello di spingere i ragazzi verso l’agonismo esasperato, verso l’idea che quello che fanno è insindacabile e intoccabile, verso un mondo che non è più rappresentativo della vita di tutti, ma del modello di qualcuno. Cioè di quei modelli che tanto critichiamo: quelli dei giocatori strapagati e viziati. E infatti ci vantiamo nel dire che dall’oratorio esce un talento come Balotelli, ma evitiamo di dire che – forse – se avesse incontrato qualcuno capace di educarlo anche umanamente, oggi non saremmo qui ad aspettare l’uomo dopo aver visto all’opera il campione.
Le alleanze educative
E qui viene spontaneo pensare al tema delle alleanze educative. Lo sport è un linguaggio, importante, come abbiamo visto. Importante perché potente nella sua capacità di rappresentare la vita e di fare comunità. Importante perché se usato a dovere riesce effettivamente a entrare in sintonia (e in empatia) con i ragazzi. Uno dei principi pastorali più assodati dal Concilio a oggi, è che i cristiani – quando educano – non sono preoccupati di “passare” solo dei valori, di “insegnare” dei precetti o dei contenuti: altrimenti leggeremmo l’educazione solo come una cosa che riguarda l’intelletto. L’educazione è una faccenda che deve coinvolgere la globalità della persona: che è un espressione per dire, semplicemente, che o si coinvolgono tutti gli aspetti dell’esistenza o non si educa.
E dunque va ricordata l’importanza di vivere lo sport come uno dei linguaggi capaci di coinvolgere totalmente i ragazzi, di inserirli in un percorso buono che li faccia crescere.
Ma educare, oggi, non è compito che può essere affidato solo a qualcuno. Educare è una faccenda della comunità intera, che deve far sentire tutti i soggetti coinvolti e nello stesso tempo deve impegnare tutti a mettere a disposizione le proprie competenze.
Per costruire progetti educativi che siano armonici: dove non esiste semplicemente la buona volontà di non pestarsi i piedi negli spazi della settimana, programmando calendari perfetti che mettano ciascuno su binari paralleli che non si incontrano mai.
Progetti buoni devono prevedere il riconoscimento reciproco alla dignità di sentirsi soggetti educativi; devono prevedere spazi e tempi dove si guarda insieme ai ragazzi di cui ci si sta occupando, condividendo i loro bisogni e cercando di coinvolgere tutte le risorse; devono avere il coraggio di ritagliarsi spazi di verifica dove ci si confronta non come se si fosse seduti su una sorta di banco degli imputati, ma dove si volge insieme lo sguardo su quei ragazzi (che poi sono sempre gli stessi) che circolano nei nostri ambienti educativi, ci si scambiano impressioni e convinzioni, perché l’educazione sia davvero un gioco di squadra.
Per concludere
Il Csi ha una grande tradizione di chiesa: soltanto tenendola viva, saprà continuare a servirla efficacemente. Soltanto tenendo saldo il legame con la comunità e il territorio continuerà a rispondere alla fatica educativa di tutti offrendo un contributo preziosissimo. Che è poi qualcosa di specifico che nessun altro è oggi in grado di offrire alla comunità cristiana. Vivere nel mondo contemporaneo significa accettare di giocare le sfide pastorali delle nostre parrocchie, considerando questo come un tempo ancora pieno di opportunità. A questo proposito indichiamone alcune a titolo esemplificativo.
Il dialogo. Prima di tutto il mutamento della realtà storica, nella quale la Chiesa vive il suo compito, chiede che si metta in atto un dialogo con la modernità. E qui pensiamo a quanto può essere prezioso il dialogo che il mondo sportivo riesce a intrattenere con i mondi anche più lontani dalla chiesa. Pensiamo a quanto sia più facile fare integrazione attraverso lo sport con tutto il mondo di chi proviene da altri paesi, culture e religioni.
La nuova evangelizzazione. In un contesto fortemente segnato dall’autoreferenzialità del soggetto, il vangelo della grazia è la verità che va proclamata e testimoniata. Mostrare la gratuità nello stile di vivere, di rendere ragione delle cose, di fare comunità, forse è ciò che può interrogare e far pensare il mondo moderno, aprendo le possibilità di accoglienza evangelica.
La presenza ecclesiale. Uno stile nuovo di Chiesa è non solo auspicato, ma fortemente efficace. Questo significa una capacità coraggiosa di giocare una presenza pubblica e significativa nel sociale, senza ricerca di privilegi e di visibilità a tutti costi; la disponibilità ad entrare nei dibattiti pubblici mettendosi in gioco e non presumendo che la verità cristiana sia accolta solo come tale, ma mostrando come questa verità abbia a che fare con la vita dell’uomo e come, in qualche modo, trovi in tale esperienza umana già delle anticipazioni e delle prospettive di senso. In altre parole, si tratta di farsi carico della storia di oggi sentendosene parte, condividendone “gioie e speranze”.
Le opportunità della parrocchia e della diocesi. Infine, il luogo di una comunità cristiana come la parrocchia è particolarmente significativo per poter recuperare il senso vero della Chiesa. Essa, infatti, non può ridursi a rappresentare il nido caldo in cui le relazioni fra i pochi intimi è fortemente centrata sull’emozione, e nemmeno a burocratica agenzia di soddisfacimento dei bisogni e delle aspirazioni del soggetto. Essa costituisce, invece, il luogo in cui il singolo credente impara a vivere nei rapporti quotidiani la qualità evangelica della vita fraterna, e in cui è chiamato, senza rinunciare alla sua soggettività, a reinterpretare la sua identità nell’ottica della fede.
Qualche volta possiamo avere l’impressione che questa è un’impresa impossibile. E allora torniamo, per un momento, alla parole del racconto di Guareschi, quando don Camillo – sconsolato – si ritrova a dialogare con il Cristo dell’altare.
“In conclusione – disse – è meglio che abbiano vinto gli altri”.
“Proprio così, don Camillo”.
“Gesù, allora Vi ringrazio di avermi fatto perdere. E se Vi dico che accetto serenamente la sconfitta come punizione della mia disonestà, dovete credere che son pentito davvero. Perché a non arrabbiarsi vedendo perdere una squadra così, una squadra che, non faccio per vantarmi, potrebbe giocare in divisione B, una squadra che di “Dynamos” se ne mangia duemila, credete, è una cosa che spacca il cuore e grida vendetta a Dio”.
“Don Camillo!” ammonì sorridendo il Cristo.
“Non potete capirmi – sospirò don Camillo. – Lo sport è una faccenda tutta speciale Chi c’è dentro c’è dentro e chi non c’è dentro non c’è dentro. Rendo l’idea?”
“Fin troppo, povero don Camillo. Ti capisco tanto che… be’: quando farete la rivincita?”.
Don Camillo balzò in piedi col cuore pieno di gioia.
“Sei a zero!” gridò. “Sei, a palla da schioppo che non li vedranno neanche passare! Quant’è vero che centro quel confessionale!”.
Buttò in aria il cappello e con un calcio l’agguantò al volo e lo fulminò dentro la finestrina del confessionale.
“Goal!” disse il Cristo sorridendo.
Giovanni Guareschi, La Disfatta in Don Camillo, 1948.
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